sabato 14 marzo 2015

correva l'anno 2000


Düsseldorf,
7 settembre 2000

Cara Blanka,
Di nuovo un falso silenzio regna dentro di me. Ho una bellissima vista sul Reno, sorseggio un ottimo caffè latte e fumo una buona Marlboro light. Il sole non è forte, il vento si è alzato da poco ed è tutto molto piacevole. Insomma anche qui è apparsa una bella giornata estiva! Come capire questo evento? Così, puramente metereologicamente. Mi è infinitamente cara la tua esistenza, la tua limpidezza il tuo calore. Mi fai pensare a quando ero felice. Lo sarò di nuovo, mamma?
Mi ha appena telefonato Heinrich. Che ossessione. Continuo parlare con lui e scriverti queste righe. Dice che la sua cugina Katerine è sempre più grassa (a me sembrava una vera sorca! A due guambe, intendevo!) Mangia soltanto le carote ma è comunque enorme. Poi aggiunge che a volte ha dei forti attacchi di bulimia e devono legarla al portone d'ingresso (molto grosso e pesante, l'unica cosa che non riesce a trascinarsi dietro nell'intenzione di raggiungere il frigo!)
Un giorno scriverò un dramma.
Mi sta cantando:” Dove l'amore, dove l'amore...non c'è nessuno, non c'è nessuno....bello come te.. (che deficiente!) Comunque mi sa che la Cher ha fatto solo il primo livello del corso di lingua italiana.
Sua madre e tutta rotta: le gambe , le braccia ...è salita sugli alberi del melo per raccogliere delle mele rinsecchite e bruciata dalla brina, con le quali lei fa dei intrugli alchemici ,ed è cascata. Chi glielo fa fare, e poi non è assolutamente elegante vedere una signora attempata che salta sui rami come un babbuino.
Ah ecco perché mi ha chiamato: le impressioni della serata di ieri a casa di sua nonna. La tavolata giovanile (età media sui 80/85 anni), il fior fiore della repubblica di Weimar. Sto passando un periodo dandy e ho intrattenuto gli ospiti parlando di lettere dubbiose di O. Wilde. Raccontavo a loro tutto sulla sua povera storia, quel cretino di Douglas Alfred, il suo padre marchese di Queensberry, due processi al tribunale, le letture delle lettere "dubbiose" e il terzo processo che non doveva esserci. Ma il vecchi marchese (che amava molto i sui scudieri e i pugili, e malmenava la moglie) minacciava di rivelare la relazione dell'altro figlio Drumlaring, con il primo ministro Roseberry. (come vedi non si capiva più un fico secco, meglio del Dynasti) Drumlaring si ammazza, e poi esce il fatto che Wilde si faceva il nipote di un qualche avvocato e tante altre cose. Tutti del club della "terza età" mi hanno applaudito a cospetto dei colori che cambiava Heinrich. (a volte si comporta come un bigotto imborghesito) Dopo siamo passati nella sala della musica, avevo paura dai sguardi di rimprovero che mi lanciava quel teutonico, ma lì ho seguiti, visto che ci andava anche un certo Marko, che è un medico coraggioso, che va in Kongo, dove dice: si trova ”In mezzo a tutti quei svogliati, stupidi e legnosi negri, che li sono grati perché lui li cura dal Aids e dalla malaria.”
Perdonami per queste righe, immagino che tu e Martin vorreste che io vi parli di cosa provo per davvero, se c’è qualcuno accanto a me…
Non desidero avere nessuno accanto a me, neanche per condividere questo momento. No, lo conserverò intero, solo per me. Ma…
Come vorrei avere qualcuno che mi aspetti da qualche parte in questa città, che dovrei raggiungere, e magari in fretta, proprio ora!
Alzarmi, cercare con lo sguardo il cameriere, pagargli il caffè e correre a prendere il tram…che aprendo le sue porte apre anche le ali della mia immaginazione; dover indovinare come sarà vestita. Sarà seduta o appoggiata sul muretto, avrà una sigaretta accesa o proprio nel momento in cui mi comparirà, la vedrò con lo sguardo abbassato e mani raccolte intorno al mento intenta ad accenderla .Quando capiterà, sarà una persona speciale.


sabato 28 febbraio 2015

Brum Brum Brrummmmm!





“Uno straniero, talvolta, percepisce il significato di alcune parole nella lingua straniera meglio di chi parla nella lingua madre…” diceva cosi l’amico di mio padre, un editore di Zagabria (non metto il nome, non farò i nomi, non avrò un nome e voi, se riusciste a perdere i vostri, anche solo per un attimo, sarà tutto come agli inizi).
Tra un morso malato e dolente e un altro, accovacciato sulla poltrona di una sala da tè nel cuore della città dei Tori, masticavo. Un pizzico ebro dalla mia prima giornata all’aria aperta dopo una breve clausura impostami dai seni paranasali putrefatti  rileggevo le parole dei miei amici ascoltati nel arco di queste giornate. La richezza di un idividuo potrebbe misurarsi dal numero delle chat in uso su whatsapp? Oh sono ricco come il re Mida io! Come la sfioro quella piccola iconcina verde saltano fuori parole come ducati dai forzieri!

La fronte si accascio sulla tovaglia ben inamidata senza il mio volere. Mi sembrava di avere la testa appoggiata sulle rotaie: premevo così forte che attraverso i timpani avvertivo la freddezza del metallo. Disteso con tutto il corpo sulla ghiaia, aggrappato alle travi di legno, prendevo le sembianze di un binario cieco dove si suole abbandonare le vecchie carrozze.

Scorrono veloci le loro parole.

La mia mente, la mia putrida mente da straniero imbastardito, assumeva le proprietà di un parcheggio per le vetture d’epoca: mantenute in perfette condizioni, sempre spolverate ma mai sfiorate dalla luce naturale. Oh, ma qualche volta le facevano mettere in moto.

Brum Brum Brrummmmm!

Avevano dei motori straordinari! I pistoni facevano su e giù, l’olio spruzzava da tutte le parti. Ah, come gioivano queste piccole bestie, le vostre parole: sfrecciavano da una parte all’altra come se stessero rincorrendo qualcosa. Il più delle volte, non sapendo imporsi un limite, andavano a sbattere contro le pareti nervose del cervello, provocando ferite e squilibri a questo contenuto infetto. Sembravano non accorgersi di nulla. Continuavano il loro giuoco sguazzando nel sangue, il prodotto di quelle piccole emorragie da loro provocate. 

lunedì 16 febbraio 2015

Pull a strisce





Lucian Freud giovane con la zebra impagliata




Non so come si fa essere sinceri. Forse per questo amo le metafore. Io mi vergogno perchè credo di aver guadagnato molto piu di te dal nostro rapporto. Mi sento cosi disonesto per averti chiesto troppo. Solo Dio può concedermi quel tipo di amore. Forse per questo tu arranchi accanto a me, cercando il modo più gentile e meno invasivo per far ripartire quell muscolo che pensi atrofizzato?
Piccole scosse, qustione di elettricità statica temo. 
D’inverno io amo lana shetland. Tutto il resto è un palliativo che il nostro corpo sente e quindi rifiuta. Sono certo che da quando l’industria del kakemir ha avuto questo boom sono aumentati sia i malanni di stagione che le allergie di vario tipo. Il corpo di un indoeuropeo cresciuto sui monti e lungo le pianure del vecchio continente assorbe il vento, il colore dei prati, il fruscio degli alberi proprio dal vello delle pecore nostrane. Un pullover di lana vergine è una specie di confessione con la madre natura. Ti abbraccia e amoregiando ti predispone ad un dialogo caldo. Kakemir, a sua volta, ti fa fare dei voli pindarici come sotto l’influsso delle stelle d’oriente per poi lasciarti precipitare là giù. Sesso occasionale. Forse per questo alcuni accumulano nei loro guardaroba i "golfini di cachemire"?
Io farò a maglia, per intrecciare dei pezzi di me che tu chiedi silentemente per farti poi indossare questo pull di shetland a righe. Perchè come il mantello striato della zebra serve a confondere la visione di un altro animale, più piccolo ma comunque molesto: i tafani; cosi io voglio confendere i mal intenzionati. Li tengo lontano dal mio cuore, ma non perchè fosse di neve balkanica, ma perché potrebbe non resistere agli invasori.






sabato 14 febbraio 2015

La generazione ritrovata-si




Una telefonata di lavoro. Leone sta vendendo un servizio televisivo sulle cellebrazioni del Bicentenario Napoleonico all’Isola d’Elba.

LEONE: Credimi Louise, la partenza di Napoleone dall’isola potrebbe essere un buon aggancio per il servizio su les Cent Jours che hanno portato l’Imperatore alla disfatta.
LOUISE: Non lo so Leo, saremo sicuramente molto più concentrati sul territorio tra la Senna e la Marna…e poi onestamente non comprendo tutto questo entusiasmo per il fallimento di uno dei più grandi legislatori mai esistiti”
LEONE: “Posso perdere una battaglia, ma non perderò mai un minuto.” diceva l’imperatore! A proposito, devo correre altrimenti perdo l’aereo! Ne parleremo più tardi, ma sono sicuro che ai tuoi produttori piacerà l’idea: I cento giorni iniziano all’Elba!
LOUISE: Ci penserò

INDICAZIONI AI POVERI MALCAPITATI: 
Ora vorrei che assumeste il ruolo della macchina da presa, che spostaste l’obiettivo verso di me e sbirciaste oltre le mie spalle, seguendo il mio sguardo. Voglio che la vostra macchina da presa metta a fuoco I momenti che sto per rivelare. Voglio che l’eccitazione per la scoperta sia resa grazie alla precisione del dettaglio. Voglio che tutto sia documentato.
Bene, allora vi do le luci, perchè …Ciak, si gira.

Parigi, Place de l'Odéon, scendiamo dall’automobile color prugna in quatro. Louise è nervosa, teme di non farcela ad incontrare la sua tata prima dell’inizio dello spettacolo. Apre la porta e corre verso l’entrata cercando con lo sguardo quei solchi e avalamenti del suo incarnato che l’hanno rassicurata per anni. La perdiamo tra la folla. Jean-Baptiste mi sta tenendo per mano, mi chiede di rallentare il passo, mi bacia. Il mio primo limone parigino. Una vettura inchioda inondanodci di luce dei suoi fari: Merde! Anna ride, siete così scioccamente prevedibili, dice. Voi e la scelta di questo momento per avvinghiarvi!, aggiunge. Passi che rimbombano sull’asfalto nonostante il movimento della piazza rispolverata dal vento freddo che spingeva tutti dentro il teatro. Il brusio e gli odori del foaier mi danno alla testa, o lo fa il bacio? Jean-Baptiste che è un ragazzo coraggioso - perché come dice Louise, ha lasciato il suo mondo dorato per venire in questa città crudele e spietata piena di parchi, viali e tetti romantici per imparare una nuova vita – mi sorreggie e bacia di nuovo! Le rughe della tata appena apparsa, insieme al profumo di Louise mescolato alla sua sigaretta si sono come appianate mentre ci guarda addagiati sul bancone dove come due tortorine comuni spilucchiamo le zollette di zucchero. Un invenzione francese, così civile perché come diceva il suo inventore Picard “Creata in unità differenti, per proteggere lo zucchero dalle mosche e dai microbi della polvere”. Un importante passo del costume borghese e del coraggio di Jean-Baptiste che incurante di questa premessa si ostina a chiedere dello zucchero in polvere al cameriere sotto gli occhi increduli della tata.

TATA: Vedendoti baciare Leone, ho creduto per un istante che fossi uno di noi Jean-Baptiste, gente di Pigalle! Ahhh les italien de Paris! Louise, vite vite, la campanella ha suonato!

E la trascina dietro di se come se fosse ancora una piccola dama agghindata a festa ma sporca di torta al cioccolato per darle una bella lavata.
Seduti comodamente nella piccionaia, ascoltiamo Nikolaj Alekseevic Ivanov di Tchekhov vestito per l’occasione da Luc Bondy. Anna ha levato i tacchi alti appogiando I suoi piedi contro lo schienale del dirimpettaio, Jean-Baptiste e' piegato in avanti e cerca di catturare ogni morfema che arriva dal profondo del palcoscenico.



IVANOV “Sono un uomo cattivo, miserabile e insignificante. Bisogna anche essere miserabili, logori, disfatti dall’alcool come Sasa per amarmi e stimarmi. Come mi disprezzo, Dio mio! Come odio la mia voce, I miei passi, le mie mani, questo vestito e miei pensieri. Non è ancora passato un anno da quanto ero forte e sano…”


JB si insinua tra le mie gambe accavallate, cerca la mia mano, scende verso I miei polpacci, li stringe forte per farmi del male, scendono le mie lacrime, avvicina le sue labbra per asciugarle

JEAN-BAPTISTE: Questo è un monologo di Ivanov amore mio, non il tuo, non ti lascerò fuggire nel suo mondo putrefatto questa notte.

Riprende Nikolaj Alekseevic 

IVANOV “… Vergogna, Vergogna! (pausa). Sasa, quella bambina s’è lasciata comuovere dalle mie disgrazie. Fa a me quasi vecchio una dicchiarazione d’amore e io m’inebrio dimenticando ogni cosa al mondo rapito come da una musica e grido: “Una nuova vita! La felicità!” E il giorno dopo credo in questa vita e nella felicità non più che negli spiriti, folletti…”

Cerco con la mano libera il mio montone, la ficco dentro la tasca per frugare bisognoso dei blister di qualche farmaco. Stringo la foglia d’alluminio per trarre l’effetto placebo ma non ce nessuna interazione questa volta. Mi sfilo con la maestria di una gatta dall’abbraccio di JB e scivolo giù,  lungo le scale verso l’uscita in pochissimi passi. Brucio immediatamente una bionda con la voracità di un animale in fuga, chiudo I bottoni grandi del montone per trattenere il caldo e l’odore di buono di JB. Mi piego per sistemare I calzini che sono scivolati giù lungo I polpacci e alzando lo sguardo ritrovo una piazza diversa. Non ero più davanti a l’Odèon! Avevo freddo e non sentivo più quell olezzo di Jean-Baptiste così piacevole e rassicurante. I piedi erano freddi. Ero solo. Devo aver camminato molto. 

LEONE: Voi con la cinepresa, rivolgete la pellicola  per favore!? Come sono finito qui? Chi diamine sta dirigendo le riprese, datemi un punto di riferimento, un “occhio di bue”, è buio non vedo niente!

VOCE FUORI CAMPO: (una voce rauca, lingua e’ il tedesco, l’accento quello svizzero)

CARL GUSTAV JUNG: La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario.
Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni che il solitario e l’amicizia fiorisce soltanto quando un individuo è memore della propria individualità e non si identifica più negli altri.

Leone inginocchiato si sta  mettendo i guanti.

LEONE: Carl Gustav mi avete privato della mia corte! Mi sentite?! Dove è il viso disteso della tata babushka? Non vedo più I piedi attorcigliati di Anna! E JB, cosa hai fatto di lui?
Ah Louise, ci sei! Abbracciami!

Attraversando il buio della piazza si fa sempre più chiara la figura di Louise con una sigaretta in mano accesa. Cammina a ritroso. Non ama farsi riprendere. Sono in pochi a conoscere il suo volto.

LOUISE: Questo è ciò che si è. Questo è ciò che tutti sono ... tutti voi, giovani che avete prestato servizio nella guerra. Voi siete una generazione perduta.

LEONE: Ma perché parli come Gertrude, Louise?

VOCE FUORI CAMPO: (un’altra voce risponde a Leone. Questa volta chiara, limpida, lingua è l’inglese, l’accento quello americano)

ERNEST HEMINGWAY: Ho pensato alla signorina Stein e a Sherwood Anderson e all'egoismo e alla pigrizia mentale opposte alla disciplina, e mi sono detto:
Chi definisce chi una generazione perduta?

LEONE: Cut Cut Cut Ernest H.! Per favore sono stanco.

Incurante, Louise intraprende il suo monologo.

LOUISE: La presa cinematografica è la prova della teoria della “intermediazione”. Secondo i suoi sostenitori esiste un’analogia tra: la cinepresa che fa da tramite tra operatore-narratore e il mondo del racconto, quindi tra Leone narratore e Leone battitore dei tasti di questo racconto. Cosa però  può ottenere Leone  abbandonando l'universo del racconto?
In questo modo, trovandosi sulla line del confine, lo scrittore o battitore dei tasti turlupina se stesso, cullandosi nel miraggio e nella beffa e affermando: che solo in tutto ciò egli partecipa senza cuore, come se tutto stesse succedendo a qualcun altro, ed io osservo interdetto . Fate caso al suo uso della parola come. Sarebbe possibile senza questo come, raccontare con un estetica rilevante del sangue, delle interiora e delle estremità strappate? È possibile allora raccontare anche  quando la cinepresa con il suo obiettivo oscurato, come se si vergognasse, cerca di guardare quello che succede intorno a lei?. Quelli più coraggiosi, come Jean-Baptiste caro Leone, sostengono che “l’occhio della cinepresa” toglie autenticità agli eventi che racconta, perché loro, gli eventi prelevati dal bancomat della realtà, sono gli unici a poter essere l’oggetto della transazione tra lo scrittore e il mondo, come altrettanto succede tra lo scrittore e il pubblico. Questi interpreti usano a volte la metafora che “l’occhio della presa mitraglia gli eventi” e così mettono in relazione un altro dei motivi della prosa di Leone: i suoi cecchini di Sarajevo.

Louise esce. Leone è in piedi sotto il vigile occhio del mirino con il montone aperto e le mani nelle tasche per indicare che le differenze delle sopra elencate tesi non sono così insuperabili e che le varie opinioni potrebbero entrare a far parte di una rappresentazione unica. Si, potrebbero, se si trattasse di uno scrittore occidentale educato in un sistema dialettico (nel modo di pensare dialettico) dove i fatti contrapposti sono in realtà Uno. Ma non è così. Qui giace la differenza fondamentale fra la ex Sarajevo e le babeliche mescolanze contemporanee delle città occidentali come Parigi.

Intanto all’Odéon: Jean-Baptiste sempre chinato in avanti, Anna con I piedi adagiati sullo schienale.

IVANOV Dove andiamo? Aspetta, adesso concludo tutto! Mi si è risvegliata dentro la giovinezza, ha ripreso a parlare l'Ivanov di prima! (estrae un revolver)
SAŠA (grida) So che cosa vuole fare! Nikolaj, per l'amor di Dio!
IVANOV È da un pezzo che scivolo in basso, adesso basta! È il momento di togliere l'incomodo! Allontanatevi! Grazie, Saša!
SAŠA (grida) Nikolaj, per l'amor di Dio! Fermatelo!
IVANOV Lasciatemi! (Corre da una parte e si spara)


Leone esce.

SIPARIO