mercoledì 31 ottobre 2012

Sul sedile posteriore


Sul sedile posteriore si è molto più comodi. Si fa anche all’amore o si osserva la vita. Sul sedile posteriore ti godi il sonno degli stolti mentre ti stanno riportando a casa.



monologo rubato da Persona di Ingmar Bergman
photo by leone sul sedile posteriore

sabato 27 ottobre 2012

instagramers, people we follow, people who follow us

imagefotoimage-1image-2foto-4image-22
image-23image-25image-20image-21image-24image-14
foto-3image-19image-13image-17image-18image-16
image-15image-8image-10image-11foto-2image-9
L’applicazione Instagram è stata, secondo i dati pubblicati su blog.instagr.am, scaricata da 15 milioni di utenti a gennaio 2012. A Settembre 2012 siamo oltre 80 milioni. Leone e Zebra amano instagramare, e ho pensato che condividere alcune foto divertenti o sempilicemente quelle che mi piaciono di più, poteva essere un modo come un'altro per contribuire alla più grande fase di decadenza del nostro secolo.
Leone

ps
se qlc amico/amica non ama apparire qui me lo dica, sia mai violare la privacy ;)

The Morning Benders - Buongiornonotte Zebra

Buongiornonotte Zebra

I Bogumili a spasso

Anche se il mio scribacchiare stesso è una vittima, il risultato, credo, non è il classico che ci si potrebbe aspettare da una vittima; e cioè un grido di dolore.  Provare raccontare l’infanzia, (cercare maldestramente) documentare  o presentare lo straniamento dell’adulto in esilio, in un paese lontano diventa un bisogno. 
Lo sguardo non deve essere troppo indulgente e il mistero deve restare mistero. Poter presentare il passato di un paese che è semplicemente sparito dalle carte geopolitiche combinandolo con l’autobiografia e come credere di poter imparare qualcosa da esso. Imparare per cambiare, migliorare in quanto essere umani, non ripetere gli errori. L’umanità è riformabile, pensiamo. 
Ecco, è proprio questo il mio problema: dopo la guerra nei Balcani non credo più che la registrazione dell’esperienza possa migliorare o cambiarci di molto. 
Il movimento dei catari, diffuso nel Medioevo nell’Europa centrale, aveva molti aspetti in comune con la setta bulgara dei bogomili – dal nome del pope Bogomil, vissuto sotto lo zar bulgaro Pietro nel periodo tra il 927 e il 969 – diffusasi in Serbia e in Bosnia. La vicenda dei bogomili di Bosnia, convertiti successivamente all’islam, dopo essere divenuti, secondo alcuni studios, la chiesa ufficiale, è uno dei capitoli storiografici più controversi della regione. Bogumili, tertium (non) datur, hanno da sempre incuriosito anche solamente per la loro versione della dottrina sulla Creazione.  Dicendo che le anime degli uomini sono diavoli cacciati dal cielo, i quali, dopo aver fatto penitenza nei corpi umani una o più volte successive, ritorneranno in cielo, i bogomili assegnavano tutto il male fisico e morale al Principio maligno e alla materia che esso ha creato, cioè il corpo umano. Perciò risulta evidente che la libera volontà di commettere il Peccato originale non c’era, perché all’inizio tutto procede dal maligno e la responsabilità è interamente sua. Questo riveste un valore particolare se si ritiene che lo spirito dell’uomo sia un angelo decaduto (ho sempre amato questa versione). 
I bogomili bosniaci affermano: il legno della vita era la donna, dal quale Adamo ha mangiato; per il quale motivo fu espulso dal paradiso. Dunque egli non era libero, ma costretto dal maligno. I presupposti di questa edizione del primo esilio sono decisamente diversi dalla versione fino ad ora "incontrata". Un'unica cosa li accomuna :

…poiché l’esilio atterra e spezza, bisogna attribuire a qualcuno la colpa di ogni frustrazione, di ogni angoscia e, naturalmente, si accusa chi ci è prossimo, il vicino più vicino...dicono i signori Grimberg, una copia di psicoterapeuti che si sono occupati molto dell'esilio.
   
Quante cose sono cambiate da quel primo esilio affrontato dai nostri progenitori? Secondo Beckett, forse, neanche così tante.  
  
passi su passi
in nessun luogo
né alcuno sa
come solamente
piccoli passi
in nessun luogo
ostinatamente


Samuel Beckett, da Mirlitonnades – Filastroccato 1978

Intanto da qualche parte a sud di Arles esplorando una qualche nuova e curiosa idenità, passi su passi... 
 

Ladino song - Oi Va Voi














































mercoledì 24 ottobre 2012

You've Got Mail


La casella postale eletronica rappresenta di fatto la controparte virtuale della posta ordinaria, quella cartacea. A differenza di quest'ultima, il ritardo con cui arriva dal mittente al destinatario è normalmente di pochi secondi o minuti, anche se ci sono delle eccezioni che ritardano il servizio fino a qualche ora o qualche giorno o qualche mese ma in questo caso ci è voluto un anno. 

Il giorno che avrebbero dovuto passare sul Bosforo è come questo ripreso che arriva al mio indirizzo solamente oggi.

-------------------------------------------------------------------------------------------
to: papavero@gipsyontheroad.com
from: fiordaliso@campinfiore.com
sent: 26/10/2011
subject: Un giorno sul Bosforo, solo tu ed io vorrei

Potrebbe essere Istanbul?, 26 Ottobre 2011


Mio caro Papavero se solo, se solamente ...

"Se per i buoni uffici del signor Nuri spedizioniere
la mia città, la mia Istanbul mi mandasse
un cassone di cipresso, un cassone di sposa
se io l'aprissi facendo risuonare
la serratura di metallo: dccinnn ...
due rotoli di tela finissima
due paia di camicie
dei fazzoletti bianchi ricamati d'argento
dei fiori di lavanda nei sacchetti di seta
e tu
e se tu uscissi da lì
ti farei sedere sull'orlo del letto
ti metterei sotto i piedi la mia pelle di lupo
con la testa chinata e le mani giunte starei davanti a te
ti guarderei, gioia, ti guarderei stupito..."

 Da Lettere dal Carcere a Munevver di Nazim Hikmet (1942)

-----------------------------------------------------------------------------------------
to: fiordaliso@campinfiore.com 
from: papavero@gipsyontheroad.com
sent: 24/10/2012
subject: RE: Un giorno sul Bosforo, solo tu ed io vorrei

Non è stata Istanbul, 24 Ottobre 2012

Mio caro Fiordaliso, 
proprio oggi, un papavero si è perso in un campo di fiordalisi. Con il sole calante, ha udito la voce di uno di voi che sussurava la storia di un giovane innamorato di una ninfa, colei che rivela la primavera in tutto ciò che sboccia. Un amore impossibile. Si trattava del giovane Ciano che forse per causa dell’amore non corrisposto venne trovato senza più soffio di vita in un campo di fiordalisi. La ninfa Flora commossa da questa visione, impartì alla famiglia dei fiori dal colore azzurro-vivo di narrare la loro storia ad ogni tramonto, fino alla fine dei tempi. 
Terminato il racconto, Fiordaliso si piego’ verso Papavero: “Beati coloro che si baceranno sempre al di là delle labbra, varcando il confine del piacere, per cibarsi dei sogni!”. 
“Allora tu sei un poeta!” esclamo Papavero. 
“No, io rubo le parole degli altri.” 
“Ah, allora sei un losco come me. Nei campi dove sono nato io, si produce l’oppio che rende dipendenti dal suo rossore, infligendo vilmente cerchi neri intorno agli occhi dei malcapitati.” 
“Allora sarà meglio chiudergli per questa notte” disse Fiordaliso, abbandonandosi sul Papavero mentre il vento arrivato dal Bosforo, insinuandosi tra i loro petali li strinse in un caldo abbraccio. 


martedì 23 ottobre 2012

Higitus Figitus











MaledettevaligeMaledettecantineMaledetticambidistagioneMaledettelerestrizionisulpesodellecompagnieaereeMaledettiicolorimarronebluneroeilrossochetantorestaacasaMaledettameequantosonocomplicataquandositrattadipartire!



Higitus Figitus!



domenica 21 ottobre 2012

Melocoton e il guardiano delle patate

Mia sorella che non ha mai diviso con me lo stesso utero, sorella che mi ha fatto ritrovare  dopo quasi trentanni una donna che non c’è più, una donna che ha preso le nostre mani sotto un albero rigoglioso mentre una dozzina di giovani poeti duellavano a suon di versi in lontananza, quella stessa donna che è stata regina di cuori del concorso più bramato dei letterati, ci ha solo chiesto di non perderci mai, mai più! Ed ecco così che ieri notte, dopo un estenuante viaggio, mia sorella, mi ha aperto nuovamente la sua casa, mi ha baciato, cibato e regalato alcune ore della sua vita come solo lei sa fare.


Photo by Sebastian B
Mentre mangiavamo, di nuovo un falso silenzio regnava dentro di me. Sensazione che si ripete: la mia bocca è sempre umida, ma la gola fa tanta fatica a deglutire qualsiasi cosa. Durante le ore dei pasti sorseggiando l’acqua o il vino, produco dei rumori mai prima sentiti. Con ogni sorso del liquido il mio pomo d’Adamo fa il solito tragitto all’insù, ma quasi faticando come quel piccolo ascensore di ferro battuto nella casa di mia nonna, che spingendo un tasto metteva in moto una miriade di leve e cavi, producendo dei rumori di breve durata, ma così unici e facilmente riconoscibili. I rumori dell’infanzia. Riaffiorano nuovamente.

Mi aveva sempre incuriosito quel piccolo lampadario che emanava una luce altre tanto particolare. Allora io mi sedevo sulla panchina inclinabile e facendo il lift-boy, salivo e scendevo tra i vari piani portando con me quasi tutti gli inquilini del palazzo. Era quello il periodo nel quale il mio padre mi leggeva spesso i libri sulla mitologia greca e romana, che incuriosivano sempre di più la mia immaginazione. Il mio approccio con la religione e stato abbastanza primario, ma ciò non toglie che io abbia potuto sentire quella brezza del divino dentro ogni sua frase che usciva dalla sua bocca mescolandosi con il fumo della sigaretta. Certe volte mi soffermavo ad osservarla, che come un Oracolo rivelava dei segreti irraggiungibili a tutti. Sarà che questo alimentò per sempre la mia alta considerazione di me stesso. Mi fece credere di essere il custode dei segreti sugli essere inavvicinabili. Ero un piccolo Cerbero sulla porta dell’ascensore del palazzo nel quartiere asburgico in una città fondata da un bey musulmano. Ero il custode del mondo degli inferi (i sotterranei, le cantine del palazzo), dove ogni tanto scendevano gli inquilini per prendere un pò di patate, carote e cipolle o mele cotogne che - come dicevano loro - si conservavano meglio al fresco e nel buio.

In quei momenti, mentre aspettavo che loro prendessero un pò di provviste dalle loro celle personali, divise dalle altre con uno steccato di legno, esploravo quel mondo oscuro e senza illuminazione, tranne la fiacca luce dell’ascensore, l’iponotico faro del guardiano delle patate. Mi allontanavo ogni volta di più, ma non perdevo mai di vista quella piccola lampada. Era un dono del dio Helios per i servigi resili da Cerbero. Quelle volte quando abbandonando il mio posto di “custode”, uscivo nel cortile-giardino del palazzo, dove lui, Helios, mi salutava con la carezza sul viso e in quel istante abbagliato dalla sua potenza, chiudevo gli occhi forte, più forte che potevo e con le mani alzate verso il celo girando intorno a me stesso lo veneravo con questa mia danza tribale, canticchiando le parole delle canzoni di un film di Milos Forman: Let the sunshine, let the sunshine in, the sunshine in! 


Quanto gioiva non saprei, e quanto capivo io tutto ciò è molto discutibile. Era un musical che condannava la guerra in Vietnam, con gli hippies e figli dei fiori, che bruciavano le bandiere americane e abbattevano i muri delle tradizioni arroccate. Quanto avesse senso tutto questo: un piccolo Cerbero meticcio, che canticchiava le canzoni rivoluzionarie occidentali nel cortile di un palazzo asburgico tra la borghesia rossa di un paese socialista, in una città fondata nel 1200, da un bey musulmano, non saprei. I miei viaggi allora incominciavano trai I piani del palazzo, prosseguivano nei paesi lontani in lingue che si alternavano ogni quatro anni, scanditi dai ritmi musicali che inizialmente erano incomprensibili. Ma c’era sempre una mano che mi prendeva e tirava fuori dai vortici della mia fantasia: fuori da un ascensore, fuori da un souk affolato o fuori da una foresta di betulle incantate. Anche ieri sera, una voce gentile, la voce della mia nipote - che con la facilità di una gazzella salta da una lingua ad un’altra - mi ha tirato fuori dalla mia atonia (quel sommerso distrubo patologico) che facilmente viene ritenuta offensiva in quanto, sbagliando diagnosi, la si scambia per supponente arroganza:

Zio, la televisione, non riusciamo a vederela!

Cosa ha che non va?

J’en sais rien! Viens, donne-moi la main!



On the road


"South in the winter and north in the summer and only because he had no place he could stay in without getting tired of it and because there was nowhere but everywhere, keep rolling under the stars."








Jack Kerouac non andava quasi mai a capo. 
Le sue parole scorrevano senza tregua, con la stessa velocità delle ruote sull' asfalto, con la stessa urgenza di chi ha fretta di andare e non può permettersi pause, virgole, respiri, con lo stesso imprevedibile ritmo, il ritmo del Bebop, battito nero dell'America, del jazz, dell'improvvisazione sacra, madre di tutti i pericoli, madre di tutti i miracoli.







Viaggiare significa prima di tutto uscire da qualcosa, una casa, una vita, una città, un binario qualunque, una convinzione. In realtà nessun paesaggio, nessuna meta è mai uguale a come l'avevamo immaginata: cambia e sulla strada, ci cambia.  L'entusiasmo che ci spinge fuori dal guscio viaggia insieme a noi, alla ricerca costante di noi.  La meta non significa arrivare, per questo una volta che l'abbiamo raggiunta, il vuoto dentro si allarga, prende forma e diventa il motore di un nuovo spostamento. Quel che conta è sentirsi vivi e sulla strada in movimento gli occhi fanno da telecamera mentre gli infiniti spazi dei paesaggi, giocano con l'idea che abbiamo di noi. 
Se la Terra Promessa non è che un'illusione, allora non sarà che un miraggio a spingerci,  a metterci in marcia verso una sorta di folle decomposizione. Non esistono frontiere nella ricerca di sé stessi, dalle origini fino agli orizzonti futuri. Sulla strada si raccolgono visioni e si lasciano in pegno segni del nostro passaggio, come se lo spazio fosse un puzzle a cui manca un pezzo di noi.
Quelli  di Kerouac sono sette anni di viaggi sulla strada. Per raccontarli gli ci sono volute solamente tre settimane. Un rotolo di carta da architetto è stato dato in pasto alla sua macchina da scrivere. Ancora una volta il ritmo non prevedeva pause, neanche il tempo di sostituire il foglio. Ancora una volta il viaggio non aspirava ad una sosta, soltanto desiderava andare. Ma questo era un viaggio diverso, un viaggio di parole su una strada di carta. All'inzio non era che una voglia di confessare certi appunti di viaggio, così come si fa in un diario, senza grandi pretese, lontano dall'idea di diventare il manifesto di un'intera generazione, un bisogno spinto solo dalla necessità di raccontare, di ridisegnare la mappa di quell'eterna ricerca.
Il rotolo di carta che conteneva il manoscritto di On The Road viaggiò sei anni in incognito, prima di arrivare a noi. Nel frattempo, un cocker ne mangiò una parte e Kerouac dovette riscriverne il finale. Ennesimo imprevisto di un' improvvisazione.







Improvvisa è stata anche la mia voglia di riprendere in mano questo libro dopo dodici anni. La sua metafora si allarga poiché per leggerlo bisogna essere disposti a viaggiare, quindi a perdersi, ad annullarsi, a lasciare occhi e gambe nel deserto del Nevada, ad affondare braccia e fregato nel Mississippi, a schiantare la propria anima contro il cielo blu del Kansas , in certe mattine in cui è difficile distinguere i propri tratti dai raggi del sole che ovunque si posano, a specchio, ovunque si donano e alle volte, come noi si perdono.








venerdì 19 ottobre 2012

signor principe, gradisca!


 
Un pranzo lungo e un incontro inaspettato, le guance rosse, fino al rossore delle nuvole che si stavano accumulando sopra le nostre teste che poi sono scoppiate in una cascata di scintille di polvere cinese! 






Il dopo? Già, dopo le belle mani nodose e gli scatti di un felino che non riesce stare fermo hanno sussurrato il nome attraverso il fumo di una Kent. Io ho avuto la sua compagnia preziosa come lo sono i gioielli delle più belle spose di Maometto. Ho perso la pudicità delle parole e ho dato lo sfogo ai miei sorrisi perché bastava aver davanti un altro Felino. Non un essere della Terra delle penombre o un viso di cera che anche se scompigliato di fatto risulta sempre perfettamente pettinato.
“Lei fuma” Mi stava dando del lei! Silenzio.
“Mi perdoni, gradisce?”
“Gradisco?” “Oh si che gradisco!”
Forse questo luogo respira ancora di quel “ Signor principe, gradisca!”




martedì 16 ottobre 2012

i-nal-te-rà-bi-le

Le ore che decidiamo di passare insieme iniziano spesso in un cortile, con le mie prese di posizioni. Tu sorridi e...


...dici: "Esistono delle persone che sono in grado di essere estremamente cordiali, in un certo senso accondiscendenti con il prossimo, sempre. Quando si è in loro presenza, ci si sente trasparenti. L’impressione che danno è quella che solamente loro hanno qualcosa di interessante da comunicare, a parole, a gesti, qualcosa di rilevante da trasmettere. Non rimane che starsene li seduti affascinati da loro o andarsene delusi dalla propria incapacità di eguagliarli."
Terminiamo quasi sempre, con un giro in automobile o con delle lunghe passeggiate. E' così arriviamo all'alba.



sabato 13 ottobre 2012

teddy bunny lost in translation



E mentre la nostra Zebra in compagnia delle tre Gazzelle follegiava attraversando la capitale cantando Padam Padam in un Karaoki a mo di Lost in translation, Leone assisteva ad un fumetto degno dei Peanuts: Teddy Bunny alias Kierkegaard.

A casa del Dr Dolittle, mentre tutti dormivano:

ehm, scusa. bella spilungona, che ne dici di un giro sul terrazzo?

Dicevi ragazzino?
Conigli, sono tutti dei conigli!
Ci vuole più coraggio per soffrire che per agire, diceva quel vecchio ciccio di Kierkegaard


Padam Padam


Questa sera mi è capito di sentire cantare Padam Padam in maniera autentica e inaspettata. 
Questa canzone, queste parole, dicono tutto il resto.










Cet air qui m'obsède jour et nuit
Cet air n'est pas né d'aujourd'hui
Il vient d'aussi loin que je viens
Traîné par cent mille musiciens
Un jour cet air me rendra folle
Cent fois j'ai voulu dire pourquoi
Mais il m'a coupé la parole
Il parle toujours avant moi
Et sa voix couvre ma voix

Padam...padam...padam...
Il arrive en courant derrière moi
Padam...padam...padam...
Il me fait le coup du souviens-toi
Padam...padam...padam...
C'est un air qui me montre du doigt
Et je traîne après moi comme un drôle d'erreur
Cet air qui sait tout par coeur

Il dit: "Rappelle-toi tes amours
Rappelle-toi puisque c'est ton tour
'y a pas d'raison pour qu'tu n'pleures pas
Avec tes souvenirs sur les bras...
" Et moi je revois ceux qui restent
Mes vingt ans font battre tambour
Je vois s'entrebattre des gestes
Toute la comédie des amours
Sur cet air qui va toujours

Padam...padam...padam...
Des "je t'aime" de quatorze-juillet
Padam...padam...padam...
Des "toujours" qu'on achète au rabais
Padam...padam...padam...
Des "veux-tu" en voilà par paquets
Et tout ça pour tomber juste au coin d'la rue
Sur l'air qui m'a reconnue
...
Écoutez le chahut qu'il me fait
...
Comme si tout mon passé défilait
...
Faut garder du chagrin pour après
J'en ai tout un solfège sur cet air qui bat...
Qui bat comme un coeur de bois...

venerdì 12 ottobre 2012

Pannonica Jazz




"... conosciuta come baronessa jazz, ha pilotato bombardieri Lancaster durante la seconda guerra mondiale. Ha avuto cinque figli e ha vissuto con 306 gatti. Charlie Parker è morto tra le sue braccia, è andata in prigione a posto di Thelonious Monk, suo uomo. Per lei sono state composte 24 canzoni" Con un nome così meraviglioso, Pannonica - più conosciuta come Nica - in onore a quello che fu il Mare Pannonico o alla farfalla che suo padre, uno zoologo amateur aveva scoperto, bhe non poteva andare diversamente. Oggi una delle più vaste e malinconiche pianure dell'Europa, con i confini tracciati dalle culture in continuo movimento, dall'espandersi di una religione o dalla migrazione delle anatre che arrivavano dal Nord-Est, dirette verso la prossima sosta nelle lagune Friulane per poi finalmente placarsi in Africa, i destini e le storie custodite nelle lingue scomparse… mi sembra ora, mentre ascolto la balata di Monk a lei dedicata, che tutto ciò fosse confluito in una persona unica. Se n'è parlato poco, ha attraversato il tempo silenziosamente anche tra i suoi famigliari. Oggi un articolo su Il Venerdì di Repubblica a firma di Valentina Della Seta me l’ha fatta conoscere e il libro - scritto dalla sua pronipote che chiude con una domanda questo filmato: “can we ever really escape where we come from?” - mi ha messo un po’ di malinconia leggera, da venerdì mattina, malinconia pannonica, farfallosa