domenica 21 ottobre 2012

On the road


"South in the winter and north in the summer and only because he had no place he could stay in without getting tired of it and because there was nowhere but everywhere, keep rolling under the stars."








Jack Kerouac non andava quasi mai a capo. 
Le sue parole scorrevano senza tregua, con la stessa velocità delle ruote sull' asfalto, con la stessa urgenza di chi ha fretta di andare e non può permettersi pause, virgole, respiri, con lo stesso imprevedibile ritmo, il ritmo del Bebop, battito nero dell'America, del jazz, dell'improvvisazione sacra, madre di tutti i pericoli, madre di tutti i miracoli.







Viaggiare significa prima di tutto uscire da qualcosa, una casa, una vita, una città, un binario qualunque, una convinzione. In realtà nessun paesaggio, nessuna meta è mai uguale a come l'avevamo immaginata: cambia e sulla strada, ci cambia.  L'entusiasmo che ci spinge fuori dal guscio viaggia insieme a noi, alla ricerca costante di noi.  La meta non significa arrivare, per questo una volta che l'abbiamo raggiunta, il vuoto dentro si allarga, prende forma e diventa il motore di un nuovo spostamento. Quel che conta è sentirsi vivi e sulla strada in movimento gli occhi fanno da telecamera mentre gli infiniti spazi dei paesaggi, giocano con l'idea che abbiamo di noi. 
Se la Terra Promessa non è che un'illusione, allora non sarà che un miraggio a spingerci,  a metterci in marcia verso una sorta di folle decomposizione. Non esistono frontiere nella ricerca di sé stessi, dalle origini fino agli orizzonti futuri. Sulla strada si raccolgono visioni e si lasciano in pegno segni del nostro passaggio, come se lo spazio fosse un puzzle a cui manca un pezzo di noi.
Quelli  di Kerouac sono sette anni di viaggi sulla strada. Per raccontarli gli ci sono volute solamente tre settimane. Un rotolo di carta da architetto è stato dato in pasto alla sua macchina da scrivere. Ancora una volta il ritmo non prevedeva pause, neanche il tempo di sostituire il foglio. Ancora una volta il viaggio non aspirava ad una sosta, soltanto desiderava andare. Ma questo era un viaggio diverso, un viaggio di parole su una strada di carta. All'inzio non era che una voglia di confessare certi appunti di viaggio, così come si fa in un diario, senza grandi pretese, lontano dall'idea di diventare il manifesto di un'intera generazione, un bisogno spinto solo dalla necessità di raccontare, di ridisegnare la mappa di quell'eterna ricerca.
Il rotolo di carta che conteneva il manoscritto di On The Road viaggiò sei anni in incognito, prima di arrivare a noi. Nel frattempo, un cocker ne mangiò una parte e Kerouac dovette riscriverne il finale. Ennesimo imprevisto di un' improvvisazione.







Improvvisa è stata anche la mia voglia di riprendere in mano questo libro dopo dodici anni. La sua metafora si allarga poiché per leggerlo bisogna essere disposti a viaggiare, quindi a perdersi, ad annullarsi, a lasciare occhi e gambe nel deserto del Nevada, ad affondare braccia e fregato nel Mississippi, a schiantare la propria anima contro il cielo blu del Kansas , in certe mattine in cui è difficile distinguere i propri tratti dai raggi del sole che ovunque si posano, a specchio, ovunque si donano e alle volte, come noi si perdono.








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