domenica 21 ottobre 2012

Melocoton e il guardiano delle patate

Mia sorella che non ha mai diviso con me lo stesso utero, sorella che mi ha fatto ritrovare  dopo quasi trentanni una donna che non c’è più, una donna che ha preso le nostre mani sotto un albero rigoglioso mentre una dozzina di giovani poeti duellavano a suon di versi in lontananza, quella stessa donna che è stata regina di cuori del concorso più bramato dei letterati, ci ha solo chiesto di non perderci mai, mai più! Ed ecco così che ieri notte, dopo un estenuante viaggio, mia sorella, mi ha aperto nuovamente la sua casa, mi ha baciato, cibato e regalato alcune ore della sua vita come solo lei sa fare.


Photo by Sebastian B
Mentre mangiavamo, di nuovo un falso silenzio regnava dentro di me. Sensazione che si ripete: la mia bocca è sempre umida, ma la gola fa tanta fatica a deglutire qualsiasi cosa. Durante le ore dei pasti sorseggiando l’acqua o il vino, produco dei rumori mai prima sentiti. Con ogni sorso del liquido il mio pomo d’Adamo fa il solito tragitto all’insù, ma quasi faticando come quel piccolo ascensore di ferro battuto nella casa di mia nonna, che spingendo un tasto metteva in moto una miriade di leve e cavi, producendo dei rumori di breve durata, ma così unici e facilmente riconoscibili. I rumori dell’infanzia. Riaffiorano nuovamente.

Mi aveva sempre incuriosito quel piccolo lampadario che emanava una luce altre tanto particolare. Allora io mi sedevo sulla panchina inclinabile e facendo il lift-boy, salivo e scendevo tra i vari piani portando con me quasi tutti gli inquilini del palazzo. Era quello il periodo nel quale il mio padre mi leggeva spesso i libri sulla mitologia greca e romana, che incuriosivano sempre di più la mia immaginazione. Il mio approccio con la religione e stato abbastanza primario, ma ciò non toglie che io abbia potuto sentire quella brezza del divino dentro ogni sua frase che usciva dalla sua bocca mescolandosi con il fumo della sigaretta. Certe volte mi soffermavo ad osservarla, che come un Oracolo rivelava dei segreti irraggiungibili a tutti. Sarà che questo alimentò per sempre la mia alta considerazione di me stesso. Mi fece credere di essere il custode dei segreti sugli essere inavvicinabili. Ero un piccolo Cerbero sulla porta dell’ascensore del palazzo nel quartiere asburgico in una città fondata da un bey musulmano. Ero il custode del mondo degli inferi (i sotterranei, le cantine del palazzo), dove ogni tanto scendevano gli inquilini per prendere un pò di patate, carote e cipolle o mele cotogne che - come dicevano loro - si conservavano meglio al fresco e nel buio.

In quei momenti, mentre aspettavo che loro prendessero un pò di provviste dalle loro celle personali, divise dalle altre con uno steccato di legno, esploravo quel mondo oscuro e senza illuminazione, tranne la fiacca luce dell’ascensore, l’iponotico faro del guardiano delle patate. Mi allontanavo ogni volta di più, ma non perdevo mai di vista quella piccola lampada. Era un dono del dio Helios per i servigi resili da Cerbero. Quelle volte quando abbandonando il mio posto di “custode”, uscivo nel cortile-giardino del palazzo, dove lui, Helios, mi salutava con la carezza sul viso e in quel istante abbagliato dalla sua potenza, chiudevo gli occhi forte, più forte che potevo e con le mani alzate verso il celo girando intorno a me stesso lo veneravo con questa mia danza tribale, canticchiando le parole delle canzoni di un film di Milos Forman: Let the sunshine, let the sunshine in, the sunshine in! 


Quanto gioiva non saprei, e quanto capivo io tutto ciò è molto discutibile. Era un musical che condannava la guerra in Vietnam, con gli hippies e figli dei fiori, che bruciavano le bandiere americane e abbattevano i muri delle tradizioni arroccate. Quanto avesse senso tutto questo: un piccolo Cerbero meticcio, che canticchiava le canzoni rivoluzionarie occidentali nel cortile di un palazzo asburgico tra la borghesia rossa di un paese socialista, in una città fondata nel 1200, da un bey musulmano, non saprei. I miei viaggi allora incominciavano trai I piani del palazzo, prosseguivano nei paesi lontani in lingue che si alternavano ogni quatro anni, scanditi dai ritmi musicali che inizialmente erano incomprensibili. Ma c’era sempre una mano che mi prendeva e tirava fuori dai vortici della mia fantasia: fuori da un ascensore, fuori da un souk affolato o fuori da una foresta di betulle incantate. Anche ieri sera, una voce gentile, la voce della mia nipote - che con la facilità di una gazzella salta da una lingua ad un’altra - mi ha tirato fuori dalla mia atonia (quel sommerso distrubo patologico) che facilmente viene ritenuta offensiva in quanto, sbagliando diagnosi, la si scambia per supponente arroganza:

Zio, la televisione, non riusciamo a vederela!

Cosa ha che non va?

J’en sais rien! Viens, donne-moi la main!



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