mercoledì 3 ottobre 2012

Please use the revolving door





Revolving doors, semplici porti girevoli dalle quali una volta era facile entrare ed uscire senza provare nulla. Al massimo, le uniche preoccupazioni potevano essere quelle di fare attenzione a non farmi pestare i piedi, a non accelerare -spinta da un'irrefrenabile entusiasmo, retaggio dell'infanzia- a controllare il cappotto, la borsa, i vari pacchi e pacchetti che a volte rimangono incastrati, provocando imbarazzi e sgraditi ritardi (di millesimi di secondi) agli indaffarati abitanti della grande mela.
Poi, d'un tratto sono arrivati Marilyn e Truman e il mio rapporto con le porte girevoli ha subito uno sconvolgimento. Lontane dall'essere un modo come un'altro di entrare o uscire, sono diventate per me  dei veri passaggi umani, delle radiografie interiori, affettive,  degli andirivieni di volti,  degli ingressi di emozioni. A questo si sono poi aggiunti simboli, altre storie fatte di amici, di condivisioni, di feste di compleanno memorabili e di una fotografia che amo molto. Appesa su un muro che divide due grandi finestre della mia cucina, placa ogni giorno la mia nostalgia newyorkese e con un solo sguardo, fa girare la mia mente.


Revolving door, New York 2010
foto di Manfredi Gioacchini




"Marilyn aveva preso alloggio al Waldford-Astoria. In quell'albergo le piacevano la sua suite al ventisettesimo piano, da cui guardava nella notte Park Avenue come si guarda un volto addormentato, ma soprattutto le porte d'ingresso girevoli.
Revolving doors, porte che girano e rigirano, la cosa e il nome la affascinavano. Un giorno Truman le disse:
"E' l'immagine delle nostre vite, si crede di andare, ma si torna, si torna indietro, non sai se entri o se esci."
"Se vuoi, ma per me è in primo luogo l'immagine dell'amore: ciascuno è solo, fra due porte di vetro. Ci si insegue, non ci si trova mai. Si è lontani in se stessi e si crede di essere appiccicati all'altro. Non si sa chi preceda o chi segua. Come i bambini, ci si chiede chi abbia cominciato. Ad amare. A smettere di amare." 
(Dialogo tra M. Monroe e T. Capote, tratto da Ultimi giorni, ultima notte di Michel Schneider)






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