fra un paio di generazioni leggeranno sui libri che l'eccessiva libertà d'espressione ha generato la più grande fase di decadenza del nostro secolo.
ed ecco, un ulteriore contributo
“Uno
straniero, talvolta, percepisce il significato di alcune parole nella lingua
straniera meglio di chi parla nella lingua madre…” diceva
cosi l’amico di mio padre, un editore di Zagabria (non metto il nome,
non farò i nomi, non avrò un nome e voi, se riusciste a perdere i vostri, anche
solo per un attimo, sarà tutto come agli inizi).
Tra un
morso malato e dolente e un altro, accovacciato sulla poltrona di una sala da
tè nel cuore della città dei Tori, masticavo. Un pizzico ebro dalla mia prima giornata
all’aria aperta dopo una breve clausura impostami dai seni paranasali
putrefattirileggevo le parole dei
miei amici ascoltati nel arco di queste giornate. La richezza di un idividuo
potrebbe misurarsi dal numero delle chat in uso su whatsapp? Oh sono ricco come
il re Mida io! Come la sfioro quella piccola iconcina verde saltano fuori parole come ducati dai forzieri!
La fronte si accascio sulla tovaglia ben inamidata senza il mio volere. Mi
sembrava di avere la testa appoggiata sulle rotaie: premevo così forte che
attraverso i timpani avvertivo la freddezza del metallo. Disteso con tutto il
corpo sulla ghiaia, aggrappato alle travi di legno, prendevo le sembianze di un
binario cieco dove si suole abbandonare le vecchie carrozze.
Scorrono
veloci le loro parole.
La mia
mente, la mia putrida mente da straniero imbastardito, assumeva le proprietà di
un parcheggio per le vetture d’epoca: mantenute in perfette condizioni, sempre
spolverate ma mai sfiorate dalla luce naturale. Oh, ma qualche volta le
facevano mettere in moto.
Brum
Brum Brrummmmm!
Avevano
dei motori straordinari! I pistoni facevano su e giù, l’olio spruzzava da tutte
le parti. Ah, come gioivano queste piccole bestie, le vostre parole:
sfrecciavano da una parte all’altra come se stessero rincorrendo qualcosa. Il
più delle volte, non sapendo imporsi un limite, andavano a sbattere contro le
pareti nervose del cervello, provocando ferite e squilibri a questo contenuto
infetto. Sembravano non accorgersi di nulla. Continuavano il loro giuoco
sguazzando nel sangue, il prodotto di quelle piccole emorragie da loro provocate.
Non so come si fa essere
sinceri. Forse per questo amo le metafore. Io mi vergogno perchè credo di aver
guadagnato molto piu di te dal nostro rapporto. Mi sento cosi disonesto per
averti chiesto troppo. Solo Dio può concedermi quel tipo di amore. Forse per
questo tu arranchi accanto a me, cercando il modo più gentile e meno invasivo
per far ripartire quell muscolo che pensi atrofizzato? Piccole scosse, qustione di
elettricità statica temo. D’inverno io amo lana
shetland. Tutto il resto è un palliativo che il nostro corpo sente e quindi
rifiuta. Sono certo che da quando l’industria del kakemir ha avuto questo boom
sono aumentati sia i malanni di stagione che le allergie di vario tipo. Il
corpo di un indoeuropeo cresciuto sui monti e lungo le pianure del vecchio
continente assorbe il vento, il colore dei prati, il fruscio degli alberi
proprio dal vello delle pecore nostrane. Un pullover di lana vergine è una
specie di confessione con la madre natura. Ti abbraccia e amoregiando ti
predispone ad un dialogo caldo. Kakemir, a sua volta, ti fa fare dei voli pindarici
come sotto l’influsso delle stelle d’oriente per poi lasciarti precipitare là
giù. Sesso occasionale. Forse per questo alcuni accumulano nei loro guardaroba
i "golfini di cachemire"? Io farò a maglia, per
intrecciare dei pezzi di me che tu chiedi silentemente per farti poi indossare
questo pull di shetland a righe. Perchè come il mantello striato della zebra serve a
confondere la visione di un altro animale, più piccolo ma comunque molesto: i
tafani; cosi io voglio confendere i mal intenzionati. Li tengo lontano dal mio
cuore, ma non perchè fosse di neve balkanica, ma perché potrebbe non resistere
agli invasori.
Una telefonata di lavoro. Leone
sta vendendo un servizio televisivo sulle cellebrazioni del Bicentenario
Napoleonico all’Isola d’Elba.
LEONE: Credimi Louise, la
partenza di Napoleone dall’isola potrebbe essere un buon aggancio per il
servizio su les Cent Jours che hanno portato l’Imperatore alla disfatta.
LOUISE: Non lo so Leo, saremo
sicuramente molto più concentrati sul territorio tra la Senna e la Marna…e poi
onestamente non comprendo tutto questo entusiasmo per il fallimento di uno dei
più grandi legislatori mai esistiti”
LEONE: “Posso perdere una
battaglia, ma non perderò mai un minuto.” diceva l’imperatore! A proposito,
devo correre altrimenti perdo l’aereo! Ne parleremo più tardi, ma sono sicuro
che ai tuoi produttori piacerà l’idea: I cento giorni iniziano all’Elba!
LOUISE: Ci penserò
INDICAZIONI AI POVERI MALCAPITATI:
Ora vorrei che assumeste il
ruolo della macchina da presa, che spostaste l’obiettivo verso di me e
sbirciaste oltre le mie spalle, seguendo il mio sguardo. Voglio che la vostra
macchina da presa metta a fuoco I momenti che sto per rivelare. Voglio che
l’eccitazione per la scoperta sia resa grazie alla precisione del dettaglio.
Voglio che tutto sia documentato.
Bene, allora vi do le luci,
perchè …Ciak, si gira.
Parigi, Place de l'Odéon, scendiamo
dall’automobile color prugna in quatro. Louise è nervosa, teme di non farcela
ad incontrare la sua tata prima dell’inizio dello spettacolo. Apre la porta e
corre verso l’entrata cercando con lo sguardo quei solchi e avalamenti del suo
incarnato che l’hanno rassicurata per anni. La perdiamo tra la folla. Jean-Baptiste
mi sta tenendo per mano, mi chiede di rallentare il passo, mi bacia. Il mio
primo limone parigino. Una vettura inchioda inondanodci di luce dei suoi fari:
Merde! Anna ride, siete così scioccamente prevedibili, dice. Voi e la scelta di
questo momento per avvinghiarvi!, aggiunge. Passi che rimbombano sull’asfalto
nonostante il movimento della piazza rispolverata dal vento freddo che spingeva
tutti dentro il teatro. Il brusio e gli odori del foaier mi danno alla testa, o
lo fa il bacio? Jean-Baptiste che è un ragazzo coraggioso - perché come dice Louise,
ha lasciato il suo mondo dorato per venire in questa città crudele e spietata
piena di parchi, viali e tetti romantici per imparare una nuova vita – mi sorreggie
e bacia di nuovo! Le rughe della tata appena apparsa, insieme al profumo di
Louise mescolato alla sua sigaretta si sono come appianate mentre ci guarda
addagiati sul bancone dove come due tortorine comuni spilucchiamo le zollette
di zucchero. Un invenzione francese, così civile perché come diceva il suo
inventore Picard “Creata in unità differenti, per proteggere lo zucchero dalle
mosche e dai microbi della polvere”. Un importante passo del costume borghese e
del coraggio di Jean-Baptiste che incurante di questa premessa si ostina a chiedere
dello zucchero in polvere al cameriere sotto gli occhi increduli della tata.
TATA: Vedendoti baciare
Leone, ho creduto per un istante che fossi uno di noi Jean-Baptiste, gente di Pigalle! Ahhh
les italien de Paris! Louise, vite vite, la campanella ha suonato!
E la trascina dietro di se come
se fosse ancora una piccola dama agghindata a festa ma sporca di torta al
cioccolato per darle una bella lavata.
Seduti comodamente nella
piccionaia, ascoltiamo Nikolaj Alekseevic Ivanov di Tchekhov vestito per l’occasione da Luc Bondy. Anna ha levato i tacchi alti
appogiando I suoi piedi contro lo schienale del dirimpettaio, Jean-Baptiste e' piegato in
avanti e cerca di catturare ogni morfema che arriva dal profondo del
palcoscenico.
IVANOV “Sono un uomo cattivo,
miserabile e insignificante. Bisogna anche essere miserabili, logori, disfatti
dall’alcool come Sasa per amarmi e stimarmi. Come mi disprezzo, Dio mio! Come
odio la mia voce, I miei passi, le mie mani, questo vestito e miei pensieri.
Non è ancora passato un anno da quanto ero forte e sano…”
JB si insinua tra le mie gambe accavallate, cerca la mia mano, scende verso I miei polpacci, li stringe forte
per farmi del male, scendono le mie lacrime, avvicina le sue labbra per asciugarle
JEAN-BAPTISTE: Questo è un monologo di Ivanov amore mio, non il tuo, non ti lascerò fuggire
nel suo mondo putrefatto questa notte.
Riprende Nikolaj Alekseevic
IVANOV “… Vergogna, Vergogna!
(pausa). Sasa, quella bambina s’è lasciata comuovere dalle mie disgrazie. Fa a
me quasi vecchio una dicchiarazione d’amore e io m’inebrio dimenticando ogni
cosa al mondo rapito come da una musica e grido: “Una nuova vita! La felicità!”
E il giorno dopo credo in questa vita e nella felicità non più che negli
spiriti, folletti…”
Cerco con la mano libera il mio
montone, la ficco dentro la tasca per frugare bisognoso dei blister di qualche
farmaco. Stringo la foglia d’alluminio per trarre l’effetto placebo ma non ce
nessuna interazione questa volta. Mi sfilo con la maestria di una gatta
dall’abbraccio di JB e scivolo giù, lungo le scale verso l’uscita in
pochissimi passi. Brucio immediatamente una bionda con la voracità di un
animale in fuga, chiudo I bottoni grandi del montone per trattenere il caldo e
l’odore di buono di JB. Mi piego per sistemare I calzini che sono scivolati
giù lungo I polpacci e alzando lo sguardo ritrovo una piazza diversa. Non ero
più davanti a l’Odèon! Avevo freddo e non sentivo più quell olezzo di Jean-Baptiste così piacevole e rassicurante. I piedi erano freddi. Ero solo. Devo aver
camminato molto.
LEONE: Voi con la cinepresa, rivolgete la pellicola per favore!? Come
sono finito qui? Chi diamine sta dirigendo le riprese, datemi un punto di
riferimento, un “occhio di bue”, è buio non vedo niente!
VOCE FUORI CAMPO: (una voce
rauca, lingua e’ il tedesco, l’accento quello svizzero)
CARL GUSTAV JUNG: La solitudine
non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno ma dalla incapacità di
comunicare le cose che ci sembrano importanti o dal dare valore a certi
pensieri che gli altri giudicano inammissibili. Quando un uomo sa più degli
altri diventa solitario.
Ma la solitudine non è
necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle
relazioni che il solitario e l’amicizia fiorisce soltanto quando un individuo è
memore della propria individualità e non si identifica più negli altri.
Leone inginocchiato si sta
mettendo i guanti.
LEONE: Carl Gustav mi avete
privato della mia corte! Mi sentite?! Dove è il viso disteso della tata
babushka? Non vedo più I piedi attorcigliati di Anna! E JB, cosa hai fatto di
lui?
Ah Louise, ci sei! Abbracciami!
Attraversando il buio della
piazza si fa sempre più chiara la figura di Louise con una sigaretta in mano
accesa. Cammina a ritroso. Non ama farsi riprendere. Sono in pochi a conoscere
il suo volto.
LOUISE: Questo è ciò che si è.
Questo è ciò che tutti sono ... tutti voi, giovani che avete prestato servizio
nella guerra. Voi siete una generazione perduta.
LEONE: Ma perché parli come
Gertrude, Louise?
VOCE FUORI CAMPO: (un’altra
voce risponde a Leone. Questa volta chiara, limpida, lingua è
l’inglese, l’accento quello americano)
ERNEST HEMINGWAY: Ho pensato
alla signorina Stein e a Sherwood Anderson e all'egoismo e alla pigrizia
mentale opposte alla disciplina, e mi sono detto:
Chi definisce chi una
generazione perduta?
LEONE: Cut Cut Cut Ernest H.!
Per favore sono stanco.
Incurante, Louise intraprende il
suo monologo.
LOUISE: La presa cinematografica
è la prova della teoria della “intermediazione”. Secondo i suoi sostenitori
esiste un’analogia tra: la cinepresa che fa da tramite tra operatore-narratore
e il mondo del racconto, quindi tra Leone narratore e Leone battitore dei tasti
di questo racconto. Cosa però può ottenere Leone abbandonando l'universo
del racconto?
In questo modo, trovandosi sulla
line del confine, lo scrittore o battitore dei tasti turlupina se stesso,
cullandosi nel miraggio e nella beffa e affermando: che solo in tutto ciò egli
partecipa senza cuore, come se tutto stesse succedendo a qualcun altro, ed io
osservo interdetto . Fate caso al suo uso della parola come. Sarebbe possibile
senza questo come, raccontare con un estetica rilevante del sangue, delle
interiora e delle estremità strappate? È possibile allora raccontare anche
quando la cinepresa con il suo obiettivo oscurato, come se si vergognasse,
cerca di guardare quello che succede intorno a lei?. Quelli più coraggiosi,
come Jean-Baptiste caro Leone, sostengono che “l’occhio della cinepresa” toglie
autenticità agli eventi che racconta, perché loro, gli eventi prelevati dal
bancomat della realtà, sono gli unici a poter essere l’oggetto della
transazione tra lo scrittore e il mondo, come altrettanto succede tra lo
scrittore e il pubblico. Questi interpreti usano a volte la metafora che “l’occhio della presa mitraglia gli eventi” e così mettono in relazione un
altro dei motivi della prosa di Leone: i suoi cecchini di Sarajevo.
Louise esce. Leone è in piedi
sotto il vigile occhio del mirino con il montone aperto e le mani nelle tasche per
indicare che le differenze delle sopra elencate tesi non sono così insuperabili
e che le varie opinioni potrebbero entrare a far parte di una rappresentazione
unica. Si, potrebbero, se si trattasse di uno scrittore occidentale educato in
un sistema dialettico (nel modo di pensare dialettico) dove i fatti
contrapposti sono in realtà Uno. Ma non è così. Qui giace la differenza
fondamentale fra la ex Sarajevo e le babeliche mescolanze contemporanee delle
città occidentali come Parigi.
Intanto all’Odéon: Jean-Baptiste sempre
chinato in avanti, Anna con I piedi adagiati sullo schienale.
IVANOV Dove andiamo? Aspetta,
adesso concludo tutto! Mi si è risvegliata dentro la giovinezza, ha ripreso a
parlare l'Ivanov di prima! (estrae un revolver)
SAŠA (grida) So che cosa vuole
fare! Nikolaj, per l'amor di Dio!
IVANOV È da un pezzo che scivolo
in basso, adesso basta! È il momento di togliere l'incomodo! Allontanatevi!
Grazie, Saša!
SAŠA (grida) Nikolaj, per l'amor
di Dio! Fermatelo!
IVANOV Lasciatemi! (Corre da una
parte e si spara)